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L’Abruzzo nelle parole dei grandi intellettuali del ‘900

I ricordi e i versi che raccontano la nostra Terra

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In questo articolo faremo in modo che siano le parole e i ricordi di grandi intellettuali e scrittori del Novecento a raccontarci l’Abruzzo, ammirato da prospettive diverse, mai banali, che ci regalano un quadro estremamente realistico della storia della nostra regione. Lasciamoci, dunque, coinvolgere in questo viaggio in un tempo non troppo lontano…

Gabriele D’Annunzio

Gabriele D'Annunzio
Gabriele D’Annunzio

Canto Novo

Ex Imo Corde. Al mio fiero Abruzzo

Mentre a ‘l bel sole de ‘l novello aprile

rîdono e terra e mare,

e fra’ capelli uno zefiro gentile

mi sento folleggiare,

da questa balza che s’eleva ardita

ti guardo, o Sannio mio,

e in cor mi sento rifiorir la vita

con ardente disìo.

Via per l’azzurro tuo ciel radiante

volano i miei pensieri

sì come una fugace e gorgheggiante

torma d’augelli neri;

e le vigili strofe intorno intorno

mi guidano una danza,

le strofe ch’io con tanto amore adorno,

che son la mia speranza.

[…]

Il Vate non ha bisogno di presentazioni. A partire dal sodalizio con gli intellettuali del circolo michettiano e dalla lettura di Verga, l’autore sviluppa un interesse viscerale per la terra natia, un’attenzione crescente per la sua regione ed il suo popolo, che, come vedremo, si sarebbe esteso dal descrittivismo veristico impressionista delle prime raccolte, al simbolismo tragico delle più mature opere teatrali. Progetta per altro in questi anni delle «figurine abruzzesi» che avrebbe voluto illustrate dal Michetti.

Così, nella raccolta Canto novo (1882), se è vero che prevalente è ancora la celebrazione della natura – quella abruzzese in primis e poi la natura tutta, in cui il poeta intende immergersi – si trova però una terza sezione dedicata al lavoro operaio e la manifestazione della volontà di scrivere un poema impegnato ispirato dall’Abruzzo. L’Abruzzo è il paradiso delle speranze giovanili, la terra dell’armonia della natura ma anche dell’umanità che sembra esserne parte, e che ad essa unisce il suo canto. Così, in questa poesia, di cui riportiamo solo i primi versi, le donne «cantan d’amore» e come uccelli «van a stormi giulivi».

Giorgio Manganelli

Giorgio Manganelli
Giorgio Manganelli

“In Abruzzo l’aria ha un sapore diverso. Nutrita di rupi e sassi, di radure e boschi, di laghi e ruscelli e torrenti e fiumi, l’aria ha uno scatto, un’elasticità di muscoli, una pungente, tagliente acredine che sa di spazi nordici, di scoscese dimore montane. Vorrei cogliere una qualità che continuamente viene incontro al viaggiatore in Abruzzo; ed è il senso della coerenza temporale, la durezza, come pietra, del tempo antico, il luogo che non muta più. L’Abruzzo è un grande produttore di silenzio.”

Giorgio Manganelli, scrittore neo avanguardista che sta vivendo soltanto di recente una nuova attenzione critica editoriale, viene spesso associato all’Abruzzo, pur non essendo natio di questa terra. Un visitatore affezionato, diremo oggi, e per raccontare questo profondo legame che univa Manganelli all’Abruzzo, sono nati due testi estremamente preziosi: “La favola pitagorica“, volumetto postumo che raccoglie una serie di «luoghi italiani» descritti tra il 1971 e il 1989, pubblicato da Adelphi, con un’ampia parte dedicata all’Abruzzo, e il libro-diario “Viaggio in Abruzzo con Giorgio Manganelli” (Solfanelli, 2012) di Pino Coscetta, che accompagnò lo scrittore in Abruzzo nella primavera del 1987. «Mio padre aveva due sogni, portarmi a visitare l’Abruzzo e rivedere con me l’Isola delle Fate», ricorda Lietta, figlia dello scrittore. «Ad ogni incontro ci si diceva: Quest’estate andiamo in Abruzzo. Che poi diventava questa primavera, il prossimo autunno, e in Abruzzo non andammo mai. Ma l’amore del Manga per l’Abruzzo era indubbio, forse perché è una regione che gli assomigliava tanto».

Ennio Flaiano

Ennio Flaiano
Ennio Flaiano

“Bisogna prenderci come siamo, gente rimasta di confine (a quale stato o nazione? O, forse, a quale tempo?), con una sola morale: il lavoro. E con le nostre Madonne vestite a lutto e le sette spade dei sette dolori ben confitte nel seno. Amico, dell’Abruzzo conosco poco, quel poco che ho nel sangue.”

Ennio Flaiano è stato un abruzzese riconoscente, che in diverse occasioni ha rievocato nostalgico la sua terra. La lettera che inviò all’amico Pasquale Scarpitti, resta il simbolo di un legame che non si è mai spezzato, di un rapporto solido che continuava a unire il grande intellettuale con la sua terra natia nonostante sia rimasto lontano dall’Abruzzo fin dalla tenera età.

Mario Pomilio

Mario Pomilio
Mario Pomilio

“Più in là che Abruzzi, faceva dire il Boccaccio a un suo personaggio per dare il senso del lontano, dell’appartato, del favoloso. E la sua può sicuramente essere assunta a espressione proverbiale per designare la condizione e la storia abruzzesi.”

La restrizione al regionalismo abruzzese e napoletano non è stata favorevole alla memoria di questo scrittore nato a Orsogna nel 1921. Tuttavia, Mario Pomilio interpretò il mondo moderno alla luce della sua fede cattolica con scritti estremamente originali. Egli trattò il tema dello sradicamento. I suoi personaggi sono senza radici, come l’uomo contemporaneo, in preda agli interrogativi ai quali non ha risposte plausibili.

Fin dalle opere dell’esordio, “Il cimitero cinese”, del 1951-1957, “L’uccello nella cupola”, del 1953-1954, e “Il nuovo corso”, del 1957-1958, risultò ossessivo il motivo della solitudine (con i dittici «solo e sradicato», «solo e derelitto» e «soli e sbandati») e dell’angustia, termine tratto da una tradizione dotta rispetto ad angoscia. Nelle sue complesse narrazioni, Pomilio rappresenta un universo pervaso dai «simboli della morte» e dalla sua «terribilità», dall’ossessione del peccato, della grazia, del dolore, del male e dell’agostiniano credo quia absurdum est. Le questioni formali restano alquanto in ombra. Questo ha fatto sì che Pomilio venisse relegato alla figura dell’ideologo, dimenticando le sue grandi doti di scrittore.

Guido Piovene

Guido Piovene
Guido Piovene

“L’Abruzzo ha carattere cantonale; deve essere veduto, ricercato di valle in valle, in cento piccole capitali dei monti. L’Abruzzo è l’unica regione meridionale, o meglio pre-meridionale, nella quale la componente ellenica non si avverte. Vi giunse invece più tardi un soffio d’Oriente, e lo si coglie nei costumi, nei tappeti, negli ori, nei merletti. L’Abruzzo ha qualità insulari, e la regione più affine ad esso è la Sardegna; ma qualche somiglianza si può scorgere anche con la Dalmazia e l’Albania. Il fondo dell’Abruzzo è dunque bizantino, romanico, gotico, con riflessi d’Oriente.”

Nel 1953, la Rai è impegnata in una serie di progetti per favorire la conoscenza dell’Italia presso gli italiani: da qui la scelta di chiamare Guido Piovene, affermato scrittore e giornalista, perché percorra il Bel Paese da nord a sud, dalle “Tre Venezie” alla Sicilia. Piovene accetta: per tre anni percorre lo Stivale e racconta agli ascoltatori le “cose viste”. I tempi della radio, però, sono stretti: manca, al letterato, lo spazio per dare voce a gran parte delle sue riflessioni. Per questo i testi furono poi pubblicati in un libro “Viaggio in Italia”. Non mancò di raccontare l’Abruzzo degli anni Cinquanta, una terra che, nonostante il contesto nazionale, tra ricostruzione e boom economico, conservava il suo carattere immutabile, che resisteva alle mode e ai rovesci della storia.

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