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La vita degli intellettuali abruzzesi fuori dalla regione

Il legame di Benedetto Croce con la terra natia

Ricca fu la schiera di intellettuali che, soprattutto nel Novecento, decisero di lasciare la loro terra, l’Abruzzo. L’esodo verso le grandi città raggiunge proprio nello scorso secolo proporzioni massicce e solo per qualcuno è possibile il “ritorno” indolore nel tessuto della società regionale.

Benedetto Croce, Montenerodomo e Pescasseroli

La maggior parte, invece, si afferma fuori confine, vivendo e raccontando a distanza il rapporto con le radici e riscoprendo, nella maggior parte dei casi, un “cantuccio” dell’anima incontaminato legato indissolubilmente alla propria terra natia. In passato si erano avuti, tra i tanti, gli esempi di Melchiorre Delfico e di Silvio Spaventa, i quali si attaccarono spesso all’orgoglio del nome e della stirpe, al ricordo del paese d’origine presentato con solennità, nella ferma consapevolezza di rappresentare come abruzzesi una parte nel mondo.

Benedetto Croce

Ora, questa linea è rintracciabile negli intellettuali come Benedetto Croce (1866 – 1952) che dedica due studi storici a Montenerodomo (CH) e a Pescasseroli (AQ), inserendoli in appendice nella Storia del Regno di Napoli, e in più tenta di scoprire il sedimento abruzzese nascosto in se stesso nel celebre Discorso di Pescasseroli (1921).

È innegabile che l’opera di Croce appartenga piuttosto ad una storia della cultura napoletana più che abruzzese; oltretutto è stato lo stesso Croce a dichiarare: “pensavo non senza melanconia (così mi pareva a volte di essere straniero e diverso) che forse l’uomo, piuttosto che figlio della sua gente, è figlio della vita universale, che si attua di volta in volta in modo nuovo; piuttosto che filius loci, è filius temporis”.

Tuttavia, stabilitosi a Napoli sin dalla prima giovinezza, Croce non aveva reciso del tutto i legami con la sua terra d’origine, considerando che nel novembre del 1910 aveva dedicato e donato al municipio di Pescasseroli il manoscritto originale della sua Logica, in cui si trovava anche una pagina inedita sui tempi di composizione dell’opera. Successivamente, nel 1919, aveva scritto la breve monografia del comune di Montenerodomo, terra d’origine del ramo paterno, cui accompagnò, due anni dopo, la ricerca su Pescasseroli, da cui proveniva la famiglia materna.

Pescasseroli
Pescasseroli

Il Discorso di Pescasseroli

Andato via dal paese natio ancora infante, Croce non vi rimise piede fino al 1921, dopo l’esperienza ministeriale nell’ultimo governo Giolitti, ormai filosofo, uomo di cultura, politico conosciuto in tutta Europa. In quell’occasione egli tenne un discorso pubblico ai suoi compaesani in cui Croce confessa di aver più volte ricordato a se stesso con forza ed orgoglio, “Tu non sei napoletano, sei abruzzese!”. Riportiamo, dunque, alcuni significativi passaggi di questo ormai celebre discorso:

“Amici di Pescasseroli, tornare al luogo dove si è nati, tra le accoglienze benevole e festose dei propri concittadini, dopo che si è percorso gran tratto della vita e l’uomo, molto o poco che sia, è quello che poteva essere e quale con tutti i suoi sforzi è riuscito a farsi, è un alto compiacimento e un grande premio, che io ora debbo a voi, amici di Pescasseroli.  […]  A me, fanciullo, i racconti di mia madre, nei quali appariva sempre una città biancheggiante di neve, quasi divisa dal mondo, e una vasta casa dove si stava intimamente raccolti intorno al lieto fuoco del camino; nei quali si narrava di uomini forti e austeri, di pastori, di innumeri greggi, e poi ancora (argomento prediletto alla curiosità del bambino) di soldati e di briganti, e meglio ancora di cacce e di orsi (poiché il bambino si interessa agli animali assai più vivamente che agli uomini), questi racconti, queste descrizioni, facevano di Pescasseroli per me come uno di quei paesi delle fiabe, che non si sa mai se siano o no esistiti. E un po’ paese di fiabe rimase per me, anche quando divenni adulto.

[…] Ed eccomi ora qui, che ho toccato il fantasma del sogno, e mi trovo anche materialmente in mezzo a voi. E voi vorrete sapere quale impressione io ora provi e se la realtà superi il sogno o se il sogno di prima superasse la realtà. Ed io vi risponderò che ancora una volta ho fatto l’esperienza, sopra me stesso, che il sogno è buono e la realtà è altrettanto (se pur diversamente) buona; che l’uomo è costituito di sogno e di realtà, di immaginazione e di azione, e l’una deve rafforzare l’altra e non sostituirsi all’altra, come suole negli spiriti, o grossolani, che non sognano mai, o fiacchi, che sognano sempre.

[…] A Napoli ho svolto la mia attività di uomo di studio, tra compagni carissimi e giovani che mi si son fatti spontanei discepoli. Eppure io ho tenuto sempre viva la coscienza di qualcosa che nel mio temperamento non è napoletano. Quando l’acuta chiaroveggenza di quella popolazione si cangia in scetticismo e in gaia indifferenza, quando c’è bisogno non solo di intelligenza agile e di spirito versatile, ma di volontà ferma e di persistenza e resistenza, io mi son detto spesso a bassa voce, tra me e me, e qualche volta l’ho detto anche a voce alta: – Tu non sei napoletano, sei abruzzese! – e in questo ricordo ho trovato un po’ d’orgoglio e molta forza. Vedete dunque quanta gratitudine io debba provare verso questa terra e verso i miei maggiori! A questa gratitudine si aggiunge ora l’altra, che debbo a voi tutti.”

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